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SFOGLIATA degli EBREI: "UNA TORTA VENUTA DA LONTANO"

di  MARIA PIA BALBONI
Scrittrice e ricercatrice di storia locale e...oltre!!!!


E'il racconto documentato sulla storia della Sfogliata Ebraica  Finalese, scandagliata pure nelle sue origini lontane, che toccano tutto il Mediterraneo, e che hanno raggiunto anche l'Europa Centro-Orintale!
Con immenso piacere pubblico qui da me, per completare in maniera ufficiale la mia ingenua ed empirica ricerca fatta dopo il mio approccio occasionale con la Sfogliata di Finale Emilia!
E' riportata la ricetta! 


Testo e foto di ivanasetti

Di Finale ho parlato parecchio, e ne parlerò ancora, perché ogni volta incontro nuovi spunti interessanti, angoli suggestivi per storia ed arte, e persino personaggi e cucina.
In occasione della Festa dell'8 dic 2011, ho potuto fotografare il Castello delle Rocche senza le enormi impalcature a ponteggi dei recenti restauri, che nascondevano tutta questa facciata!


Grazie Maria Pia!
Spero che la folla di ieri abbia pure visitato il tuo piccolo "chiosco" coperto dalle "arelle" di erbe lacustri!
Il G. ed io abbiamo gradito la buonissima fetta di Sfogliata offerta gratuitamente lì accanto, proprio nella versione kashèr!

Maria Pia Balboni

UNA TORTA VENUTA DA LONTANO

 " A Finale Emilia, sin dal 1994, l’Amministrazione Comunale ha introdotto una sagra assai apprezzata che ha luogo l’8 dicembre, festa dell’Immacolata. E’ la “Sagra della Sfogliata”, una torta salata nota in passato come “Torta degli Ebrei”; a partire dalle ore 15.00, un assaggio di questa tradizionale specialità finalese viene offerto a tutti gratuitamente, accompagnato da un corroborante sorso di anicione, e presso la bancarella del Gruppo R 6J6 è possibile gustare la torta addirittura nella sua versione originale kashèr, che prevede il burro in sostituzione dello strutto.
   Originatasi nella seconda metà dell’Ottocento, la tradizione della “torta degli ebrei” è tuttora assai viva nelle case dei Finalesi. Quando calano le prime nebbie, e la triste ricorrenza dei morti si rinnova puntualmente con il suo carico di rimembranze e di dolore, le massaie rinfrancano i vivi con il profumo e il sapore di questa impareggiabile torta, dorata come l’autunno e impastata con gli ingredienti più rappresentativi della nostra robusta terra padana: farina di frumento, tanto strutto e buon formaggio grana. Ma qual’è la sua provenienza, e perché esiste nella sua versione con lo strutto solamente al Finale?. Da Piero Gigli  (che ha riportato una storia tramandata oralmente di generazione in generazione in seno alla famiglia Rimini), apprendiamo che il segreto della sua preparazione, custodito gelosamente per secoli dagli ebrei del Finale, fu divulgato ai cristiani da Mandolino Rimini, un ebreo convertitosi al cattolicesimo nel 1859. Costui, dopo il battesimo con cui gli era stato impartito il nome di Giuseppe Alinovi, si vendicò del disprezzo dimostratogli dai suoi ex correligionari giocando loro uno tiro atroce. Rese pubblica la ricetta della torta e si mise a venderla sotto ai portici di Santa Caterina (l’odierna Via Mazzini), dopo aver sostituito il burro e l’olio utilizzati dalle famiglie del ghetto con lo strutto, il quale, essendo derivato dal maiale, è inviso agli ebrei come l’acqua santa al diavolo. Piero Gigli ha raccontato anche un gustoso aneddoto che credo spieghi  il motivo per cui i Finalesi chiamano tibùia  la “torta degli ebrei”.
   “Alinovi trovò subito imitatori e concorrenti – riferisce Piero Gigli -; il più noto fu al zòp Tiburzi, che alzò il suo trespolo a pochi passi da lui. A turno, ogni mattino, i due venditori urlavano il loro richiamo e ne risultava una tenzone in rima, bonaria e ridanciana. “Calda c’la bùi!” – gridava Tiburzi.  “Merda ad pui” – rimbeccava Alinovi. “Calda c’la scòta!” – vantava Alinovi. “Merda ad tòca!” - era la replica di Tiburzi”.1 La parte iniziale del suo cognome, combinata con il grido da lui tante volte ripetuto “c’la bùi”, ha probabilmente dato origine alla parola tibùia.
   La nostra torta ha molti parenti altrove: a Modena si chiamano chizze, come pure a Reggio Emilia; in quest’ultima città però la chizze sono dei cilindretti di pasta sfoglia, molto maneggiata col burro, con una cavità all’interno riempita di formaggio grana: cotte al forno – come la nostra sfogliata – le chizze  erano la specialità di un ebreo locale, un certo Sacerdoti detto Salamèin (Salamino), il quale si suicidò nel 1938, quando entrarono in vigore le leggi razziali.2
   A Ferrara invece ci sono le buricche, pasticcini di pasta sfoglia al formaggio i quali, come la maggior parte dei salatini e dei dolci ferraresi a base di sfogliatelle, sono di origine ebraica. Tuttavia le buricche sono diffuse in tutta Italia, e servono da base per dolci e pasticcini di carne o di formaggio. La ricetta che ce ne dà Giuliana Ascoli Vitali Norsa nel suo libro La cucina nella tradizione ebraica è quasi identica a quella della torta degli ebrei preparata dalle massaie finalesi: occorre solo aggiungere il formaggio grana, sostituendo all’olio lo strutto, e il gioco è fatto.
   Ma allontaniamoci un po’ dalla nostra penisola, per rintracciare altrove alcuni parenti della nostra torta. In Spagna, dove gli ebrei vissero insieme agli arabi sino al 1492, quando furono espulsi dai Re Cattolici, sono diffusissime le hojaldres, ossia delle sfogliate che possono essere dolci o salate, semplici o con ripieno: per quelle salate il ripieno è di carne o pesce, per quelle dolci si usa invece la zucca. A Cordoba, città nella quale convissero pacificamente arabi ed ebrei, e patria del grande Maimonide, ne esiste una versione particolare chiamata pastèl cordobès, dove gli strati di pasta sfoglia, alternati a polpa di zucca, sono intervallati da fette di prosciutto, messo di proposito dagli ebrei marrani rimasti a Cordoba per dimostrare l’autenticità della loro conversione. A Maiorca infine, che per via della sua posizione geografica e della sua particolare storia ha avuto pochi contatti con l’esterno, mantenendo inalterate moltissime tradizioni, la Pasqua cristiana si festeggia con le panades, che sarebbero delle torte sfoglie ripiene di carne di agnello, mentre a Menorca il  ripieno pasquale è esclusivamente di formaggio, tanto che le sfogliate si chiamano in catalano formatjades: sia le panades che le formatjades sono torte di tradizione ebraica. Se poi facciamo un balzo oltre lo Stretto di Gibilterra e approdiamo in Marocco, dove sino a pochi decenni fa sopravviveva una importante comunità ebraica, scopriamo che anche qui si mangiano le sfogliate: c’è la versione araba con formaggio e c’è quella ebraica con burro e miele, che si consuma l’ottavo giorno di Pasqua. Pure in Egitto sono presenti, anche qui a base di formaggio, e sempre impastate con burro oppure olio d’oliva (anche per i mussulmani lo strutto è vietato): si chiamano Fatir Mishaltit.
   Naturalmente le ritroviamo in Israele,  dove le chiamano burèkas e si presentano simili alle chizze di Reggio Emilia, cioè dei triangoli o rettangoli di pasta sfoglia ripiegati a mo’ di ravioli e ripieni di formaggio: si vendono soprattutto nei mercatini arabi, ma sono consumati sia dagli Israeliani che dai Palestinesi. A questo punto sale istintiva alle labbra una domanda: questa “torta degli ebrei” è di origine ebraica oppure araba? La risposta credetti di averla trovata un mattino di molti anni fa a Francoforte sul Meno, in Germania. Passeggiavo nei pressi della stazione, quando una “Tavola Calda”, per via del gradevole odore che da essa emanava, attrasse la mia attenzione: in vetrina, in una grande padella, faceva bella mostra di sé, tagliata a riquadri, la nostra sfogliata!  “Imbiss Sarajevo”, stava scritto sull’insegna del locale. Superati i primi istanti di perplessità, entrai con decisione, e lasciai il verdetto al mio palato. Dopo alcuni morsi – la pasta sfoglia era quella che ben conoscevo, tenera sotto, ma dorata e croccante in superficie (peccato che il formaggio non fosse grana, ma un pecorino tenero) – non ebbi più alcun dubbio: la finalese “torta degli ebrei” era approdata in Germania, sia pure in versione rimaneggiata! E come si chiamava? Burèk, mi rispose il proprietario dell’Imbiss. Era iugoslavo, e proclamò orgoglioso che queste sue burèk provenivano dai Balcani: ce n’erano di formaggio, di carne ed anche con la zucca, mi spiegò. Il collegamento con le ebraiche buricche italiane fu istantaneo, e la mia intuizione si rafforzò più tardi, quando venni a sapere che le burèk si potevano gustare in tutta la Jugoslavia, in Romania, in Bulgaria e naturalmente anche in Turchia, giacché  erano di origine turca, come il loro nome. Ne ebbi una conferma alcuni mesi dopo ad Istanbul dove, recatami sotto il voltone del mercato delle spezie, vidi troneggiare in una vetrina delle grandi burèk al formaggio, contenute in padelle rettangolari e tagliate a riquadri; se non ci fossero stati i rumori di sottofondo del mercato, la pittoresca confusione e l’odore acuto delle spezie, avrei potuto credere di trovarmi sotto ai portici di Via Mazzini davanti ad una bancarella di “tibùia”. Lasciate in eredità dai Turchi ai popoli soggetti alla loro dominazione, le burèk  si erano diffuse soprattutto nei Balcani, da dove gli ebrei le avevano successivamente portate nei paesi divenuti meta della loro Diaspora. Si spiegava così la loro presenza pure in Egitto e in Palestina, paesi dominati per vari secoli dai Turchi. Probabilmente al Finale erano approdate insieme agli ebrei provenienti dai Balcani, e forse qui le avevano portate addirittura i Belgrado, il cui cognome denuncia una lunga permanenza in quella zona: dei Belgrado restano due lapidi nel cimitero ebraico del Finale, e la loro presenza nella nostra città è documentata sin dagli esordi del Seicento. Bastò sostituire al formaggio pecorino il nostro grana, assai più saporito e filamentoso, e le balcaniche burèk  si trasformarono in quella “torta degli ebrei” della quale i Finalesi possono andare giustamente orgogliosi. Piero Gigli le ha dedicato una gustosa poesia in dialetto. Eccola:

La torta d’Abrèi

Cus duvìvi far i abrèi
quand calàva zò la sìra
incadnà déntr’in dal ghètt?
Povra zént! In sinagòga,
po in cusìna avsìn al fògh,
chi studiàva la leziòn,
chi dò ciàcar da la fnèstra,
chi pianzìva in tun cantòn.
E la màma: “Vlìv la torta?”
Al papà c’al fièva i cònt:
“Sa fuss véra. Fàla grànda”.
Sùla tàvla, rosa, alvàda,
la sfuiàda la s’avrìva,
“O che udòr”, infurmaiàda,
e la fièva dasmingàr
la cadéna ach sràva al ghètt.
Cus duvìvi far i abrèi
quand calàva zò la sìra??
Tutt cuntént magnàr la torta
E po dop, sòta ai linzò,
dasmingàr d’èssar abrèi
e la vècia far di fiò.

   Piero Gigli ci ha lasciato anche la ricetta della “torta degli ebrei” nella sua variante finalese, che contempla la sostituzione di una parte di burro con una uguale dose di strutto. Eccola:

   Ingredienti per 6 persone: 500 gr. di fior di farina (00); 100 gr. di strutto; 150 gr. di burro; 250 gr. di formaggio parmigiano-reggiano giovane; 15 gr. di sale; acqua.

   Si impasta sul tagliere, meglio su un ripiano di marmo, la farina con l’acqua e il sale in modo da farne un pane morbido e lo si lavora per almeno mezz’ora. Formare una palla e lasciare riposare l’impasto, coperto con una terrina, per circa un’ora. Mentre la pasta riposa, amalgamare a fuoco bassissimo, o meglio a bagnomaria, 100 gr. di burro e lo strutto sino a ottenere un “unguento” semifluido. Dividere la pasta in sei pezzi; lavorare ancora il primo pezzo e tirarlo sino a una sfoglia sottilissima di forma rettangolare; ungerla con la sesta parte della manteca di burro e strutto. Ripetere l’operazione con gli altri cinque pezzi di pasta, sovrapponendo e ungendo via via le sfoglie e non dimenticando di ungere l’ultimo, in superficie.
   Piegare all’interno, in tre parti, il lato lungo del “mattone” così ottenuto; fare riposare l’impasto, ricoperto, in frigorifero per circa 20 minuti. Tirare nuovamente la sfoglia sempre nello stesso senso, avendo l’avvertenza di lasciare verso l’alto la parte piegata per ultima e senza mai voltare la pasta di sotto in su, all’altezza di mezzo centimetro e alla stessa larghezza della tortiera rettangolare che si vuole usare, ma lunga il triplo. Imburrare la tortiera e foderarla con un terzo di sfoglia; cospargere con la metà del formaggio grana parmigiano-reggiano tagliato a fette sottilissime e spruzzare leggermente con poca acqua; ricoprire con la seconda sfoglia, ancora formaggio e acqua, infine posare la terza sfoglia saldando bene la pasta dei bordi. Incidere leggermente la superficie della “sfuiàda” con la punta di un coltello in modo da formare rombi o quadrati di 5 cm. di lato e fiorire con il burro rimasto (50 gr.) a fiocchetti. Far cuocere a forno caldo (200 gradi) finché la pasta non ha preso un bel colore rosato. La “sfuiàda” va mangiata caldissima.
   Ricetta un po’ elaborata che richiede tempo ed esperienza; il risultato, però, vi ripagherà di ogni fatica.

Maria Pia Balboni"



Qui il Portico che introduce all'antico GHETTO di Finale Emilia





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Commenti

Paula Feldman ha detto…
questa sfoglia portatami da un amica che era andata trovare un partente che abita a Finale...o almeno la ricetta in un libro. Mi ha detto che è squisita oltre a essere facile da fare! abbracci da ponente, P
ivana ha detto…
Ciao Paula!

No, non proprio facile da fare, si fa molta fatica a tirare le sfoglie molto sottili e in casa non la fa molta gente, è un cibo da strada da secoli!
Ho imparato che anche in un forno lo fanno qui da me, quindi al mattino presto qualcuno va a comprare una fetta da mangiare!
Un po' calorica lo è!!!!!

Ciao, un abbraccio dal grigio Levante!
Byte64 ha detto…
Bellissima la parentesi storiografica, quando feci la sfogliata anni fa incappai anche io negli scritti della signora Balboni, insuperabile custode della storia ebraica finalese.

Sempre grande Ivana!

Un abbraccio
Tlaz
ivana ha detto…
Grazie Tlaz!

Hai ragione, Maria Pia è grande, ha la stoffa della ricercatrice, riesce a far rivivere nei suoi scritti, ma a conoscerla bene, anche nelle sue appassionate relazioni dal vivo, antichi personaggi di Finale con una vivezza e un amore incredibili!
Ha una conoscenza amplissima, non solo relegata alla cittadina modenese, ma una ricchezza poliglotta, per cui fin dagli anni sessanta ci sono delle opere pubblicate dalla Fabbri di narrativa straniera tradotta da lei!
E' pure molto pratica, volitiva e molte realizzazioni di recupero e salvataggio delle lapidi dell'Antico Cimitero Ebraico sono state eseguite da lei personalmente. Poi altri esperti e addetti hanno contribuito a completare i saggi che lei ha pubblicato!
Grazie, caro Tlaz...a risentirti!

Un abbraccio!
Fabipasticcio ha detto…
L'errare degli ebrei ha permesso che alla Storia si mescolasse la storia della cucina, così ritrovi in luoghi lontani prodotti simili legati da un comun denominatore: le radici, il senso di appartenenza. Questa contaminazione racconta molto più di un libro di Storia, racconta di viaggi a volte non voluti, ma obbligati, di portarsi però dietro un pezzetto di cuore, di casa per non dimenticare mai da dove si è partiti, raccontano anche lacrime, dolori, però anche gioie. Grazie Ivana per questo post davvero molto molto interessante.
Serena domenica
ivana ha detto…
Grazie Fabi!

Attraverso un cibo si può esplorare la storia di un popolo! Amo questi riscontri, e anche se mi muovo solo a breve raggio, trovo sempre stimoli che, come un sasso scagliato in mezzo al lago, amplificano le affinità che legano vari territori, stati e continenti!

Sono particolarmente curiosa...e anche ne pomeriggio ho fatto una piccola escursione in un paese, dove il volontariato aveva un polivalente stand con lavorazione della carne di suino, con la frutta in confettura, cibi da strada poveri con la farina di castagne, dove ho riscontarato proprio la originalità di un formato che ricordo di quando ero bambina!
Il G. mi lascia fare, ho chiacchierato con la responsabile, che mi "conosce"...cioè ha riconosciuto nonna ivana e giù abbracci e baci!
Mi fa piacere immensamente, poter dare gioia a molte persone volonterose, che vivono di semplici cose!

Buona serata a te...e pure una buona settimana anche al cucciolo!

Un abbraccio!
Marica ha detto…
Salve, complimenti per la ricetta e la storia. Non sempre si trova la ricerca e la spiegazione di una ricetta attraverso i tempi. Io sono di Modena, ma confesso di non conoscere le "SCHIZZE". Ormai ho settant'anni e non ne ho mai sentito parlare nemmeno dalle mie nonne. Forse sono solo reggiane. Un tempo le tradizioni culinarie erano molto "racchiuse" fra le mura delle località di origine.
Saluti e ancora complimenti

Marica
ivana ha detto…
Cara Marica, grazie dei comlimenti e delle riflessioni che condivido!
La ricetta fa parte degli incontri che faccio personalmente recandomi sul posto e a Finakle ho conosciuto la scrittrice Maria Pia Balboni, che ha scritto molto della storia di Finale, e lei conosce benissimo usi e costumi della località per le CHIZZE, io le conosco con questo termine, le ho conosciute a Vezzano sul Crostolo, quini nel Reggiano Appenninico, e le ho viste fare dal centro sociale degli anziani, le ho mangiate e le faccio qualche volta come le ho viste e imparate là!

Mi ha fatto piacere il tuo commento, tu sei molto più giovane, io vado per gli 82 a giugbo!!!

Grazie e a rikeggerti!

Ivana

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