La grande cucina, anni Quaranta-Cinquanta.
Il fresco del pavimento in pietra bolognese ristorava i nostri piedini scottati dalla dura terra rovente dell'aia, la penombra creata nella vasta stanza dalle persiane accostate a capanna intimoriva un po', poi le voci dei famigliari, raccolti attorno al tavolo a parlare, ridava un dolce conforto.
Questa l'immagine che mi accompagna in certi momenti di "distrazione" dal presente, magari evocata da una parola, da una lettura, da un tema antico nei nostri discorsi.
Emigrazione...una parola che oggi ha un significato a riflesso contrario, ha un impatto minore sulle nostre coscienze, non ci tocca più da vicino, anche se ora preme l'immigrazione verso di noi!
Noi bambini stavamo seduti sul focolare, con qualche giochino in mano, io avevo una strana bambola di pezza, che non amavo, gli altri, c'erano pure dei cugini, scherzavano fra di loro, zittiti ogni tanto dai grandi.
- Venusto dovrebbe avere scritto! Ma suo padre non dice niente!- stava dicendo mio padre
-Ci vogliono dei mesi per ricevere una lettera...deve attraversare terre e oceano, chi sa se poi lui ha tempo di scrivere!- interloquiva mia madre.
Seguivo di tanto in tanto i loro discorsi, conoscevo le persone di cui parlavano, ma solo perché abitavano in fondo alla strada, o perché le donne venivano con la loro paniera di pane, a cuocere nel nostro forno a legna nell'ampio cortile.
I tempi erano duri, un dopoguerra drammatico, ancora tante ferite nelle famiglie, tanto ancora da costruire.
Mio padre era stato in guerra cinque lunghi anni, e solo in un mattino di marzo del Quarantatre avevo potuto riabbracciarlo dopo la sua partenza nel '40 per l'Albania. Era rimasto in licenza solo cinque giorni, poi era ripartito: avrebbe sofferto altri due lunghi anni, e dal settembre sarebbero stati di prigionia nei campi di concentramento nel Nord della Germania.
Tornò solamente nel luglio del Quarantacinque; dal marciapiede della pensilina della sinistrata stazione, attaccata al nero grembiule di mia madre, mia sorella dall'altra parte, guardavamo ansiose verso i finestrini del treno che rallentava. Tanti volti straniti, piangenti o sorridenti, si avvicinavano sempre più; io non riconobbi mio padre, che già da alcuni metri ci chiamava,quasi urlando, tutto nero in volto, per il sole, e la bocca tutta vuota...senza denti. Aveva 34 anni, allora.
Tutto il podere aveva subito un impoverimento estremo, mia madre da sola, senza l'aiuto del garzone, che era pure partito per la guerra, e con poca possibilità per chiamare dei braccianti a lavorare i nostri campi, aveva "trascurato" il vasto frutteto, che si era via via diradato, inselvatichito.
Avere la terra e la casa era una base importante, ma chi viveva di bracciantato, o anche altri che avevano perso il posto nelle poche fabbriche rimaste attive, conoscevano una grande miseria o persino la disperazione. Dal paese cominciarono quindi a partire in molti, per le terre promesse del Venzuela, dell'Argentina, soprattutto; i discorsi dei grandi vertevano su questo tema, con una sommessa pena, che sentivo in questi sospiri, in questa ansia di sapere cosa era accaduto a quelli che erano partiti.
Forse aveva sfiorato anche la mente dei miei parenti il pensiero di emigrare? Era troppo grande il lavoro di recupero della nostra autonomia sul podere, si prospettavano anni di grandi rinunce; questo scelsero i miei: ricostruire man mano, fare nuove piantagioni, riempire la stalla, avere fiducia nel futuro.
Venusto non tornò mai, neppure arrivarono mai lettere da lui.
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